"Parola al Minotauro" di Eliana Sanzone (classe IE)
Mi chiamo Asterio, ma forse non mi riconoscerete mai con questo nome. Per voi sono solo il mostro, l'aberrante figlio di un amore che non sarebbe mai dovuto nascere. Ma io, da dentro il mio labirinto, vedo la vita in modo diverso. Non sono sempre stato questa creatura che tutti temete, non sempre sono stato prigioniero di queste mura che mi imprigionano. Un tempo ero un bambino, un bambino che non chiedeva nulla, un bambino nato da una maledizione.
Mio padre, il re Minosse, aveva il dovere di governare Creta, eppure, in uno dei suoi momenti più oscuri, fece un patto con Poseidone, ma non riuscì a rispettarlo. Fu allora che il dio del mare gli inviò un toro magnifico, e lui, in segno di sfida e di superbia, rifiutò di sacrificare l'animale, che avrebbe dovuto essere offerto come segno di rispetto. E come punizione Poseidone fece in modo che sua moglie Pasifae si innamorasse di quell'enorme toro bianco. Io nacqui da quel peccato, e forse, in qualche modo, rappresento la vendetta di un dio che non ha mai perdonato.
Fin da bambino ho capito che il mio corpo non era come quello degli altri. La pelle, i muscoli, la testa di toro, la gente mi guardava con occhi pieni di paura, ma non sapevo cosa fare, non sapevo se fossi buono o cattivo. Non sono stato mai padrone del mio destino, e mi sono sentito intrappolato in un corpo che non mi apparteneva. Non ho mai conosciuto l’amore, se non quello distorto di mia madre, e mai ho avuto una famiglia che mi accogliesse come figlio. Eppure, loro... loro mi avevano creato.
Vissi negli oscuri corridoi del labirinto, che divenne la mia prigione e la mia casa, progettato dal grande Dedalo. Era l’unico posto dove nessuno osava cercarmi, ma anche l’unico da cui io non potevo scappare. Ogni giorno mi nutrivo della paura che gli altri avevano di me, ma era una paura che mi consumava lentamente. E così, nel mio cuore, nacque un odio profondo verso tutto e tutti, un odio che non potevo controllare. Le vittime che venivano portate nel mio labirinto, dai sacrifici che mio padre ordinava, divenivano il mio cibo, ma il loro dolore mi pungeva come un veleno.
Un giorno un eroe chiamato Teseo venne a cercarmi. Mi disse che avrebbe dovuto uccidermi, ma io non riuscivo nemmeno a comprenderlo. Per me non era questione di vita o di morte: ero già morto dentro da tanto, troppo tempo. Lui, armato di coraggio e di furbizia, trovò il mio punto debole. Il filo che Arianna gli aveva dato per orientarsi nel labirinto lo salvò, e mi uccise. Non mi arrabbiai, non provai paura. Finalmente, dopo anni, la mia sofferenza era finita. E forse, in qualche modo, fu una liberazione.
Non avrei mai voluto essere un mostro. Non ho mai scelto di essere quello che ero. E nella mia morte, non trovo vendetta. Trovo solo un quieto e malinconico riposo. La mia vita è stata un'ombra lunga, un'incertezza che non avrà mai una risposta. Forse, alla fine, non ero altro che il frutto di una maledizione, destinato a essere dimenticato e, allo stesso tempo, temuto. Io, che non avevo scelto nulla, sono solo il ricordo di ciò che non poteva essere.
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